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Cenerentola a Manhattan

di TRISH WYLIE

Tutta colpa del ballo...

È normale che la responsabile catering Erin Giordano venga travolta dallo sfarzo e dal glamour quando, all'ultimo minuto, è catapultata sotto le luci della ribalta per indossare il famoso diamante Harlequin. Ed è normale che rimanga incantata dall'affascinante proprietario della gemma, suo cavaliere per la serata. Ma mai avrebbe pensato di baciare un perfetto sconosciuto senza nemmeno aver scambiato due chiacchiere con lui, se non fosse stato per il loro ballo sensuale.

Men che meno se avesse saputo la verità su Nathaniel Van Rothstein....

4

Il ristorante in cui Nate portò Erin gli ricordava un film di Hollywood, uno di quelli che si aprono con una crescente melodia alla Gershwin e una panoramica sullo skyline di New York da sotto il Ponte di Brooklyn. Guardando la sala ben illuminata con le sue pareti damascate, le sedie di vimini da bistrot, le tovaglie eleganti e la cristalleria, si chiese perché non ci fosse mai stato prima. Doveva visitare più spesso la città fuori Manhattan. Avrebbe potuto essergli d'aiuto per curare la sua crescente irrequietezza degli ultimi mesi.

Osservò Erin e represse un sorriso nel vederla giocherellare con lo stelo del suo calice. Non era felice di trovarsi lì, eh? «Ceneremo in silenzio, non è così?» le domandò.

Lei lo guardò negli occhi, poi distolse lo sguardo. «Pensavo che avessi bisogno di riposare le orecchie, dopo essere stato bombardato con tutte quelle scemenze sulla mia infanzia.»

«Non ho mai incontrato persone che tengono fotografie di famiglia sul posto di lavoro.»

«Oh, se c'è un modo per mettermi in imbarazzo, stai pur certo che la mia famiglia riesce a trovarlo.» Un piccolo sorriso accarezzò gli angoli della bocca di Erin. «Ti è andata bene che non hai dovuto passare a prendermi a casa. I miei hanno talmente tanti filmini che avrebbero potuto impedirti di vedere la luce del giorno per anni.»

«È per questo motivo che nascondi i tuoi fidanzati?»

«A dire il vero, tu sei il primo che sono riuscita a nascondere.» L'ironia della sua affermazione sembrava divertirla e per un breve istante Erin dimenticò dove si trovava e con chi e sorrise. Poi il suo sguardo incontrò di nuovo quello di Nate e allora ricordò.

Fu come il sole che sparisce dietro a una nuvola. Farlo riapparire divenne immediatamente la missione di Nate per la serata. «Immagino sia un dettaglio che mi distingue dagli altri, proprio come è successo a te quando mi hai cercato su Google.»

Qualsiasi cosa Erin vide sul viso di Nate bastò per addolcirla. Un sopracciglio finemente arcuato sparì sotto la frangetta mentre il colore dei suoi occhi assumeva una sfumatura verde muschio. «Giochiamo a punti, eh?»

«Hai deciso che non ti piaccio.» Quella di Nate era una constatazione dei fatti, piuttosto che una domanda. Non perché stava facendo il gioco duro a cui era abituato durante le ore di lavoro, ma perché sapeva di avere ragione. Quando si era presentato in anticipo e aveva trascorso del tempo a parlare di nuovo con la sua famiglia, sotto l'evidente imbarazzo di Erin aveva notato quella che era quasi sembrata timidezza. Ma nel momento in cui si era ritrovata sola con lui, lei era cambiata, una combinazione di cautela e sospetto che la portava a studiarlo con gli occhi stretti quando credeva di non essere vista.

«Non c'è motivo per cui tu mi debba piacere.»

Furono interrotti dall'arrivo di un cameriere, così per alcuni minuti Erin assaggiò porzioni di petto di gallina ripieno e rivestito di pancetta affumicata, porri brasati, spinaci saltati, carote biologiche al burro e salsa d'aglio arrosto. Osservò quasi un religioso rispetto per ogni sapore che divertì Nate e al tempo stesso lo affascinò.

«Buono?»

La domanda le accese gli occhi d'entusiasmo. «Mmh-mmh. Un primo assaggio di anticipo d'autunno.»

Nate scavò nella sua memoria per ricordare quando avesse dato appuntamento l'ultima volta a una donna che apprezzava tanto il cibo. Era la prima volta. Ed era una boccata d'aria fresca. Unito al modo in cui lei sorseggiava il vino e usava la punta della lingua per gustare lentamente il suo sapore rimasto sulle labbra era di una sensualità estrema. Erin avrebbe mostrato la stessa indulgenza in tutto ciò che faceva appello ai suoi sensi?

Be', di certo avrebbe funzionato alla grande con...

Come se lei avesse inteso ciò a cui Nate stava pensando, un lampo di consapevolezza le attraversò gli occhi. Sbatté le palpebre un paio di volte, deglutì, le sue labbra morbide si schiusero per inalare l'aria che fece alzare i suoi seni contro la scollatura quadrata dell'aderente maglioncino color crema.

Ogni cellula nel corpo di Nate si incendiò di vita com'era accaduto la sera in cui avevano ballato insieme. Quando lo sguardo di Erin si posò un istante sulla sua bocca, lui le sorrise piano. Provava lo stesso anche lei!

Cercando i suoi occhi, lei inclinò la testa e lo studiò ancora un istante. E alla fine concluse: «Tu mi vedi come una sorta di sfida, non è così? Sono scappata da te e, siccome immagino che non ti capiti molto spesso, mi ha resa interessante ai...».

«Mi stai psicanalizzando?»

«Sto cercando di capire perché un tipo come te senta il bisogno di andare dietro a una come me. Non dovrebbe interessarti se mi piaci come persona o meno...»

Non avrebbe dovuto, sì, eppure era così. Nate non aveva idea del perché. «Non esci spesso a cena, vero?»

«Non in posti belli come questo, no. Perché?»

«Quando è stata l'ultima volta che un ragazzo ti ha mandato dei fiori? Comunque... prego.»

«Ti ho ringraziato per i regali. È la prima cosa che ho fatto quando mia madre ha finito di raccontarti di quella volta che mia sorella gettò il pesciolino rosso nel gabinetto.»

«No, hai detto che apprezzavi il gesto, ma che non era necessario e che avrei anche potuto smettere.» Nate rivolse la sua attenzione al cibo. «E, per correttezza nei confronti di tua sorella, bisogna dire che aveva quattro anni e che di certo non era il primo pesce rosso a cui capitava la stessa sorte.»

«A parte il fatto che la maggior parte di quelli che avevano subito la stessa sorte erano già morti.»

«Non riuscivo a smettere di pensare a te.»

Ci fu un istante di silenzio scioccato e poi, alla fine, un sussurrato: «Cosa?».

«È per questo che sono qui. E, no, non so perché. Ma ho intenzione di scoprirlo. È sufficiente come risposta alla tua domanda?» Quando Nate alzò il mento, lei lo stava fissando.

Erin sembrava un cerbiatto davanti ai fari di una macchina.

«Erin?» Non distolse lo sguardo e Nate inarcò le sopracciglia.

Dovette sventolarle una mano davanti al viso, prima che lei sbattesse le palpebre. Poi Erin scosse la testa e tornò a concentrarsi sul cibo. «Ho sentito che qui fanno un'ottima marquise al cioccolato, accompagnata da una coppetta di gelato nocciola e vaniglia...»

Nate sorrise.

* * *

Non riuscivo a smettere di pensare a te.

Le parole riecheggiarono nella mente di Erin per il resto della serata, la conversazione che seguì era solo un ricordo vago. O lui era nettamente più bravo di quanto avesse immaginato nel gioco della seduzione, oppure...

Sprimacciò con forza i cuscini sotto la testa. D'accordo, non aveva una seconda opzione, ma ci stava lavorando. O, almeno, ne avrebbe avuta una, se non fosse stato per un piccolo problemino.

Anche lei non era riuscita a smettere di pensare a lui. Era il motivo per cui aveva cercato informazioni su Internet, innescando inconsapevolmente una reazione a catena. Per prima cosa era venuta la gelosia, che era ridicola, dal momento che non si erano scambiati una parola. Poi era stato il turno della frustrazione per la reazione che aveva avuto, quindi rabbia per la frustrazione e, quando alla fine Erin aveva deciso di raccontare tutto alle amiche per metterci una pietra sopra, Nate si era presentato con il suo cellulare.

Prese in esame la frequenza con cui aveva ripensato al bacio. Quel bacio che nella sua mente aveva assunto una connotazione fantastica. Ogni volta che Nate, seduto di fronte a lei, le aveva guardato la bocca, lei si era convinta che avrebbe sentito le sue labbra sulle proprie per via di quel bacio. Accidenti a lui!

Quando il suo telefono squillò, Erin si girò e rispose alla chiamata, certa di sentire la voce di Clare o di Madison che le chiedevano com'era andata. «Pronto?»

«Ma allora hai davvero il coprifuoco!»

Erin si mise seduta di scatto e si guardò intorno, tirando le coperte con la mano libera come se lui fosse nella stanza insieme a lei. «Tutto bene?» Domanda stupida. Certo che Nate stava bene. In caso contrario, perché mai avrebbe dovuto chiamare lei? Fece marcia indietro. «Perché mi hai chiamata?»

«Perché ti ho detto che l'avrei fatto?»

Sì, si ricordava quel pezzo. Ma non pensava che lo avrebbe fatto così presto. Una parte di lei aveva persino sperato che fosse quel genere di Ti chiamo detto tanto per dire. Perché il bisogno istintivo di scappare continuava a crescere in modo esponenziale dentro di lei più si trovava a pensare a lui.

«È un tragitto lungo da Brooklyn a Manhattan. Mi puoi fare compagnia.»

«Hanno costruito un ponte, sai?» Erin scosse la testa, lo sguardo fisso nel buio. «Spero proprio che questa non sia una di quelle telefonate...»

«Quali telefonate?»

«Penso che tu lo sappia bene.» Si ritrovò a sorridere mentre si adagiava di nuovo sui cuscini.

Immaginò di sentire un sorriso di risposta nella profondità della voce di Nate. «Ricordami di chiederti l'indirizzo del sito in cui hai scoperto che gran bravo ragazzo sono. Ho una squadra di esperti pronti a iniziare una battaglia legale.»

«In bocca al lupo!»

«Vuoi sapere come la penso?»

«Onestamente?»

«Penso che dovresti dimenticare quello che hai letto.» Ci fu un leggero cambio d'intonazione nella sua voce, segno che Nate aveva girato la testa, mentre in sottofondo si sentiva il rombo quasi predatorio della sua auto sportiva. «E conoscermi sul serio. Potresti restare sorpresa. Di solito i bambini e gli animali mi adorano e non ho mai ucciso un pesce rosso.»

Erin alzò lo sguardo al soffitto. «Sì, dolce come un gattino, è proprio quello che sei.»

«Non esistono vie di mezzo per te, vero?»

«Inizio a capire perché ci sono così tante foto tue con donne diverse. Fuggono tutte, non è così?»

«Ci hai ripensato di nuovo stasera, giusto?»

Il modo in cui aveva balbettato parole a caso e aveva sbattuto la portiera dell'auto praticamente in faccia a Nate a fine serata dovevano averla smascherata. Il costante accenno di sorriso sul volto di lui per tutta la durata della cena avrebbe dovuto farle capire che l'aveva scoperta. Ma, tecnicamente, sarebbe stato più facile essere se stessa durante una conversazione telefonica, quando lui non la distraeva con il suo modo di guardarla, quindi Erin fece un bel respiro profondo e fece un tentativo. «Sì.»

«Mi vuoi dire perché?»

«Non molto.»

Il momento di silenzio che seguì la sorprese. Nate stava rinunciando? Per quanto perversa potesse sembrare la cosa, Erin era dispiaciuta. Cosa diceva questo di lei?

«D'accordo. Allora, altra domanda.»

E sarebbe stata di certo peggio.

«Perché sei così taciturna quando ci sono i tuoi familiari?»

No, si era sbagliata. A quella poteva rispondere. «Hai conosciuto la mia famiglia. Hai fatto fatica tu a finire una frase, dovrebbe farti capire molte cose.»

«Sì, ma tu hai avuto tutta la vita per adattarti al loro ritmo.»

«Forse sono solo timida.» Non era poi molto lontano dalla verità.

Ma le valse una risata lieve. «Disse la ragazza che ha baciato un estraneo senza neanche aver scambiato due parole con lui.»

«Pensavo che ci volessero due persone per fare una conversazione.»

«E allora parla con me.»

Il tono roco della voce di Nate diede alle sue parole quella punta di seduzione necessaria per riscaldare il corpo di Erin e farla sistemare languidamente sotto le lenzuola. «Di cosa?»

«Dimmi qualcosa che non so.»

Lei ridacchiò. «Be', ce ne sono un sacco.»

«Comincia dall'inizio.» Il rombo dell'auto si fermò, il silenzio che accresceva il senso d'intimità. «Riempi gli spazi che l'album di famiglia ha lasciato vuoti.»

«Mi devo alzare alle sei.»

«Non devi dirmi tutto in una volta sola. Non andrò da nessuna parte.»

Sbattendo gli occhi rivolti al soffitto della sua camera, Erin si chiese perché quelle parole non avessero scatenato il suo bisogno di fuggire. Eppure non fece nessun commento sarcastico, né riagganciò. Piuttosto cercò nei suoi ricordi un punto da cui partire.

«C'era una volta, in una terra chiamata Brooklyn...»

Il suono basso di una deliziosa risata mascolina riecheggiò nelle sue orecchie.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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