Un regalo meraviglioso
di LAURA MARIE ALTOM
Quando il marito di Rachel viene creduto morto dopo settimane di inutili ricerche, lei scompare con il frutto del loro amore che le sta crescendo in grembo. Il migliore amico di suo marito Chance è determinato a rintracciarla e forse, dopo diciotto mesi, c'è riuscito. Ma Rachel sarà pronta a sentirsi dire che...?
Dopo tutto quel tempo, era davvero Rachel? Rachel che faceva vivere il figlio di Wes in un ostello per senza tetto? Ma perché, perché non aveva chiesto il suo aiuto?
Chance si passò una mano sugli occhi che gli bruciavano.
«St... stai bene» mentì spudoratamente osservando attonito l'ombra della donna che lui ricordava. Profonde ombre scure le cerchiavano gli occhi blu. Wes gli raccontava spesso delle sensazioni che gli davano i lunghi capelli color dell'oro della moglie quando gli sfioravano il petto mentre facevano l'amore, ma quei capelli ora erano ridotti a un ispido caschetto corto. «E il bambino... È bellissimo. Hai fatto un buon lavoro, Rachel.»
«Grazie» sussurrò lei ancora confusa. «Ma cosa ci fai qui?»
«Sono qui per vederti... per aiutarti.»
«Non ho bisogno di aiuto.»
«Non è vero» replicò Chance in tono deciso. Le tolse il piccolo dalle braccia e lo strinse a sé, poi gli appoggiò il mento sulla testolina. «Come si chiama?»
«Wesley» rispose Rachel evitando di guardarlo.
Chance annuì, cercando di ignorare il nodo che gli aveva all'improvviso serrato la gola. Un bambino così bello costretto a crescere in un ambiente tanto crudele... E perché? Solo per lo stupido, folle orgoglio della madre.
«Prendi le tue cose, dai...» le ordinò allontanandola da un relitto umano che giaceva fra i fumi dell'alcol su un tappeto consumato dal tempo.
«Cosa?»
«Mi hai sentito. Hai cercato di fare a modo tuo, e non ha funzionato. Adesso si fa a modo mio, come avrebbe voluto tuo marito.»
«Io sto bene» sbottò lei, gli splendidi occhi ora parzialmente animati, il mento puntato in avanti. «È un periodo difficile, ma passerà. Tutto si sistemerà.»
«Non si sistemerà un bel niente, qui» Chance sistemò il bambino nell'incavo di un braccio e afferrò quello di Rachel con l'altra mano. «Non vuoi la carità da me? D'accordo» borbottò incamminandosi verso la porta d'ingresso del rifu
gio. «Ma questa è davvero la vita che desideri per tuo figlio? Per il figlio di Wes?»
Per quanto il tono della sua voce fosse risultato più aspro di quanto avesse desiderato, non era pentito di aver pronunciato quella frase. Anni prima aveva fatto una promessa a Wes, e aveva ancora tutte le intenzioni di rispettarla.
Distolse lo sguardo da Rachel e osservò un abete di plastica quasi del tutto privo di rami, ornato da decorazioni fatte in casa. Renne e angeli di carta colorati a matita. Gli intenti di chi aveva preparato l'albero erano buoni, ma Rachel meritava di meglio.
Per ammazzare il tempo durante i loro infinti appostamenti, Wes parlava per ore della sua moglie perfetta. Di quanto l'amava, di come lei fosse brava in cucina e attenta nel far quadrare il bilancio domestico. A volte si spingeva fino a raccontargli dei dettagli della loro vita privata che avrebbe fatto meglio a tenere per sé, dettagli che dovevano restare rinchiusi nei confini della camera da letto.
Ma proprio per l'inclinazione a parlare troppo di Wes, che gli piacesse o meno, Chance sapeva tutto di lei, dalla sua canzone preferita ai preliminari del sesso che la eccitavano di più.
Era anche a conoscenza dei sogni di Wes nei suoi confronti. Poiché era cresciuta in un orfanotrofio, desiderava darle almeno una mezza dozzina di figli, comprarle una grande casa circondata da un giardino, e come prima cosa sostituire con una nuova la sua vecchia e malandata automobile.
Chance aveva fatto una promessa al suo miglior amico, una promessa che lo costringeva a continuare da dove Wes si era fermato. Ovviamente avrebbe lasciato da parte l'intimità fisica che condividevano marito e moglie, Rachel per lui era off limits. Ma per quello che riguardava il renderla felice, era ciò che era pronto a fare. E che segretamente sperava di fare, anche se avesse dovuto dedicare a quel compito il resto della sua vita.
Tornò a guardare Rachel: in quel momento aveva gli occhi sgranati, le labbra le tremavano. «Andiamo» la esortò, questa volta più gentilmente. «È ora di tornare a casa.»
Intanto, il bambino si era addormentato fra le sue braccia. Aveva il visetto arrossato e si succhiava il pollice.
«Ho cercato di allattarlo al seno» spiegò Rachel prevedendo la sua domanda. «Non è stato possibile. Non avevo latte.»
«Succede» commentò Chance, per quanto non sapesse in materia di neonati e nemmeno perché Rachel avesse sentito il bisogno di parlarne con lui. Però avrebbe detto qualsiasi cosa, pur di convincerla a seguirlo.
Lei scosse la testa, si asciugò le lacrime con il dorso di una mano.
«Aspetta. Vado a prendere le nostre cose.»
Arrivare in aeroporto e imbarcarsi sul grosso jet fu un'esperienza quasi surreale, per Rachel. Come lo fu anche attraversare una Portland immersa nelle nebbia sulla jeep di Chance e fermarsi in un centro commerciale aperto di notte per acquistare un seggiolone per il bambino, vestiti, pannolini, latte in polvere, una culla da viaggio, insomma, tutto il necessario. Le luci di Natale che adornavano le strade le erano estranee, come se caratterizzassero un mondo cui lei non apparteneva più.
«Ti restituirò fino all'ultimo centesimo» affermò restando sprofondata nel sedile del passeggero, la fronte appoggiata al finestrino appannato. Probabilmente Chance si stava dirigendo verso la sua deliziosa casa in collina, che lei aveva sempre segretamente definito come la versione edilizia di una torta
nuziale. «I soldi per i vestiti, per i biglietti dell'aereo, riavrai tutto. Ho solo bisogno di un po' di tempo per rimettermi in piedi.»
«Certo.»
Era la sua immaginazione, o Chance aveva stretto con maggiore forza le dita sul volante? «Davvero» ripeté Rachel prima di spiegargli che l'assicurazione aveva rifiutato di corrisponderle il premio della polizza sulla vita di Wes. «Ma appena avrò il mio assegno, ti rimborserò.»
«Sai come puoi ripagarmi?» domandò Chance, azionando il telecomando per aprire la porta di ferro del garage.
Rachel scosse la testa mentre Chance parcheggiava la jeep nel box che Wes e lei stessa avevano aiutato a ridipingere, durante quella magica estate in cui lei e il suo futuro marito erano diventati amanti.
Ma anche lei aveva i suoi segreti, come tutte le donne... Serrò gli occhi e rivide Chance come l'aveva visto la sera del loro primo incontro al Ziggy's Sports Bar, prima ancora di conoscere Wes. Nonostante l'aspetto fisico – alto, spalle possenti e un torace largo come il tronco di una quercia - l'animo cordiale e timido di Chance l'aveva reso ai suoi occhi un gigante gentile verso il
quale era stata subito attratta.
Aveva chiesto informazioni sul suo conto a degli amici comuni, e quando i loro sguardi si erano incrociati, aveva scorto nel suo un lampo di interesse. Per un rapidissimo istante, si era illusa che lui la giudicasse attraente. Ma poi lui aveva voltato la testa e il contatto si era interrotto.
Subito dopo le si era avvicinato Wes, che dopo meno di dieci, esilaranti secondi le aveva comunicato di non voler essere semplicemente un amico per lei. Bello, alto, un fisico atletico e il sorriso sempre pronto sulle labbra, non aveva dovuto faticare molto per farla innamorare di sé e della propria abilità di rendere magica ogni occasione.
Chance spense il motore e sospirò. L'unica luce proveniva dalla piccola lampadina sospesa al soffitto, e gli unici suoni erano il ticchettio della pioggia sul tetto mescolato ai gorgoglii del bambino. Si sporse verso di lei, le sfiorò le labbra con la punta di un dito tanto delicatamente che Rachel pensò di averlo immaginato.
«Sai come puoi ripagarmi?» chiese di nuovo.
Il cuore che le batteva freneticamente, lei scosse la testa.
«Tornando a sorridere.»