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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

10

Forse sarebbe dovuto essere meno drastico, pensò, cambiare tono e ripeterle che sarebbero stati amici per sempre.

    Ma ormai era troppo tardi.

    L'autunno era alle porte e ogni notte il vento strap­pava qualche petalo dai girasoli.

    Tornando a casa dal lavoro circa una settimana do­po Ben, stufo di quei fiori che suscitavano in lui troppi ricordi, li sradicò e andò a buttarli nel compostaggio. Mentre faceva quell'operazione, un centinaio di semi si sparsero per il giardino. Ben rabbrividì: era faticoso allontanare i ricordi! Se non avesse raccolto subito quei semi l'anno successivo il suo giardino sarebbe stato invaso da quei fiori gialli. Celeste era ovunque. Nella sua testa, nei suoi sogni, e quando saliva in ca­mera per cambiarsi guardava la spiaggia dove si erano conosciuti e la fotografia di Jen sul comodino era co­me un muto rimprovero nella sua cornice d'argento.

    «Cosa faccio?» Prese la cornice e fissò gli occhi chiari di sua moglie. Come avrebbe voluto poterle parlare anche solo due minuti! Due minuti soli per ri­cevere i suoi consigli, sempre pratici e logici. Stava pensando una sciocchezza. Come poteva chiedere a Jen un parere su Celeste?        Fece scorrere il dito sul ventre prominente del ritratto dove cresceva la loro bam­bina, lo toccò attraverso il vetro della cornice, sfiorò quello che non avrebbe mai potuto toccare, prendere tra le braccia...

    Ma non era quello il momento di crogiolarsi nella nostalgia. Quella sera erano venuti a trovarlo i suoi cognati, ma poco dopo il loro arrivo fu chiamato per un'emergenza in ospedale che lo aveva letteralmente salvato da una serata intrisa di rimpianti e ricordi.

    Passando accanto all'appartamentino di Celeste sen­tì una musica fortissima che proveniva dai suoi vicini. Proseguì sperando che la festa finisse presto o che lei avesse preso Willow e se ne fossero andate dai suoi genitori. Certo che una festa così rumorosa era l'ul­ti­ma cosa di cui una mamma aveva bisogno solo pochi giorni dopo aver portato a casa la sua piccola. In ogni caso non era un problema suo.

    «Scusami!» esclamò Belinda alzando gli occhi dal kit di rianimazione quando lui arrivò. «Stavamo per chiamarti per dirti che non era più necessario che ve­nissi.»

    «Ne sei certa?»

    «Eravamo stati allertati per due casi di po­li­tra­u­ma­tizzati» gli spiegò Belinda, «oltre a tutti gli altri pa­zienti. Così abbiamo pensato di aver bisogno di rin­for­zi, anche se tu non eri di reperibilità.»

    «Dove sono le vittime dei traumi?»

    «Uno è morto durante il trasporto e l'altro non è poi così grave. Stavo proprio per andare ad avvisare i ge­nitori... brutta cosa avere dei figli adolescenti, eh? Forse avrei dovuto aspettare a chiamarti.»

    A Ben non dispiaceva affatto di essere stato chia­mato, oltre al fatto che Belinda, con la sua chiamata, aveva posto fine al penoso incontro con i cognati, lo considerava una parte del suo lavoro. «Già che sono qui ti do una mano.»

    «Non è necessario» rispose Belinda mentre lui a­na­lizzava delle lastre al computer, «vai a casa, è solo un venerdì notte come tanti.»

    «Non mi dispiace, davvero» insistette lui, «del re­sto domani ti sostituirò, ricordi?»

    «Ah, già! Spero davvero che domani non mi di­stur­berai.»

    «Dove vai di bello?»

    «In un meraviglioso albergo» sorrise Belinda, «lon­tano da qui.»

    «Quindi tu e Paul andate a gonfie vele.»

    «Assolutamente sì. Non dovresti essere così dif­fi­dente nei confronti degli incontri fatti via internet.»

    Ben borbottò qualcosa tra sé e sé. Belinda non mol­lava mai. «D'accordo, torno a casa. Ma chiamami se hai bisogno.»

    In realtà avrebbe di gran lunga preferito che Be­lin­da avesse davvero avuto bisogno di lui, che ci fossero stati milioni di pazienti che necessitavano delle sue cure per­ché, quan­do arrivò nella sua via, invece di ral­lentare ac­celerò impercettibilmente e spense la radio. In realtà non gli interessava affatto quello che suc­ce­deva negli altri appartamenti, qualunque cosa fosse: facevano feste praticamente tutte le sere. Un gruppo di teenager si stava riversando in strada e nonostante i fi­nestrini fos­sero chiusi riusciva a sentire i rimbombi della musica a percussioni. Fece una rapida inversione a U e lam­peggiò i fari su quel branco di idioti u­briachi. Aprì il suo vecchio cancello e si diresse verso l'appartamento di Celeste; le luci erano tutte accese e si sentivano le urla di Willow. Bussò alla porta e non ricevendo risposta immaginò che lei doveva essere terrorizzata. «Celeste!» chiamò in un momento in cui la musica si era abbassata, «sono io, Ben.»

    «Cosa vuoi?» Quando gli aprì la porta vide subito che aveva pianto.

    «Ho sentito questo baccano tornando a casa e ho immaginato che fastidio potesse darti. Avresti dovuto telefonarmi.»

    «Pensavo che avresti potuto non essere in casa» re­plicò lei. Nonostante la sua fiera risposta si capiva che era di nuovo pronta a scoppiare in lacrime. «In fondo è solo una festa.»

    In effetti era solo una festa, ma così vicina a una giovane mamma e a una neonata aveva un effetto de­vastante.

    «Non riesco a farle prendere il latte e le pue­ri­cul­tri­ci hanno insistito che mangiasse sempre ogni tre ore.»

    «Coraggio, prendi le vostre cose e venite a casa mia.» Celeste stava per rifiutare quando nel­l'ap­par­ta­mento accanto scoppiò una rissa. «Celeste, per favore non essere testarda» ripeté lui. Persino all'interno della casa la musica perforava i timpani. «Prepara una borsa e vieni da me per stanotte.»

    Lei avrebbe voluto ancora discutere, ma la sua of­ferta era molto allettante. Non capiva se Willow era più disturbata dalla sua tensione o dal frastuono della musica, ma dopo sei settimane in Terapia Intensiva si spaventava per un nonnulla. Aveva paura a stare da sola con la piccola, tanto più con quel caos nel­l'ap­par­tamento accanto.

    Stavano cercando di legarla al seggiolino dell'auto ma Ben ebbe un'idea migliore. «Secondo me è meglio metterla nella carrozzina e andare a casa a piedi... For­se potrebbe anche addormentarsi.»

    Non sarebbe mai uscita da sola con quei ragazzi che schiamazzavano, ma la presenza di Ben le dava fi­du­cia. Lui prese la carrozzina e la trasportò giù dai gra­di­ni mentre Celeste chiudeva a chiave la porta. Il can­cello era ancora aperto e si avviarono lungo la strada. Ben le teneva il braccio intorno alle spalle e lei i­ni­ziò a parlare solo quando il baccano si affievolì. «A­vresti dovuto chiamare la polizia» osservò lui.

    «Ottima idea farmi nemici i miei vicini di casa!»

    C'era la luna quasi piena che illuminava la strada, la musica era solo un rumore in lontananza e lei risentì con piacere lo sciacquio delle onde del mare. «Era so­lo una festa» ripeté.

    «Non è un posto...» Celeste lo interruppe perché a­veva già capito dove sarebbe andato a parare.

    «È tutto quello che posso permettermi, Ben.»

    «Lo so bene.»

    «C'era un'altra casa in città più o meno allo stesso prezzo, ma ho preferito essere vicino al mare. Quando sono venuta a vedere l'appartamento mi è sembrato carino, certo non ho chiesto di vederlo di venerdì alle undici di sera.» Gli subentrò alla guida della car­roz­zi­na e ora camminava più velocemente. Willow, stan­chissima, continuava a urlare e Celeste era affranta. Si era impegnata così tanto per fare tutte le cose per bene e invece ogni due minuti succedeva qualcosa che le poneva davanti un ostacolo. «Sto facendo del mio me­glio» gli disse quando arrivarono davanti alla casa, «anche se penso che tu non ne sia convinto.»

    «Non ho mai detto nulla del genere» protestò lui.

    «Ma lo pensi!» Era arrabbiata con lui anche se sa­peva benissimo che era un atteggiamento del tutto ir­razionale. Non era colpa sua, lui era stra­or­di­na­ria­men­te gentile, ma quella perfezione le sembrava che ser­visse solo a mettere in luce la sua inadeguatezza.

    «Perché non provi a darle il biberon?» le suggerì con delicatezza. Poi sollevò la carrozzina su per le scale e la portò nella stanza degli ospiti. «Sdraiati sul letto» le suggerì, «c'è una vista incantevole. Servirà a farvi rilassare tutte e due e vedrai che anche Willow si calmerà.»

    «E anche la sua mamma, che ne ha un gran bi­so­gno.» Celeste era imbarazzata per le sue parole di po­co prima.

    «Ora vi lascio tranquille» disse lui, «vado a pren­de­re delle lenzuola pulite.»

    «Grazie» rispose Celeste.

    «Raggiungimi quando sei pronta.»

    «Mi manca qualcosa per scaldare il biberon, mi puoi aiutare?»

    «Certamente.»

    «Per la verità...» mormorò Celeste sollevando quel fagottino che era sua figlia, «me la puoi tenere un at­ti­mo?»

    «Penso io a scaldare il biberon, so dove trovare tut­to l'occorrente.»

    Lui prese il biberon e lei cambiò Willow i cui strilli rimbombavano in tutta la casa. Celeste sapeva che se­condo i suoi manuali avrebbe dovuto sem­pli­ce­mente sdraiarsi sul letto e allattare la bambina al seno e que­sto la fece sentire ancora peggio, un vero fal­li­men­to di madre. Voleva solo piangere e stentò a rin­gra­ziarlo quando le portò il biberon alla giusta tem­pe­ra­tu­ra.

    Sedette sul bordo del letto e lo prese in mano. Lo offrì alla piccola e la bocca di Willow si serrò intorno alla tettarella come se fosse digiuna da una settimana e l'unico rumore che si sentiva adesso nella stanza erano gli ultimi singhiozzi di un bimbo affamato che fi­nal­mente riceveva la sua pappa.

    Mentre Willow ingoiava il latte vigorosamente, Ce­leste si tolse i sandali e si sdraiò sul letto stringendola a sé, ma ogni volta che iniziava a rilassarsi la piccola sobbalzava, disturbata dall'angoscia e dal panico che evidentemente la madre le trasmetteva.

    Era diventato un riflesso condizionato e la festa era stata solo il fattore scatenante.

    Per la verità da quando era tornata a casa, ogni vol­ta che sedeva tranquilla per allattare la piccola, sua madre piombava in casa sua e la riempiva di consigli non richiesti. «Prima cambiala» le suggeriva, «tieni la bottiglietta più in verticale» aggiungeva, «ha bisogno d'aria» concludeva. Tutti questi consigli di Rita a­ve­va­no avuto il solo risultato di esacerbare la sua tensione.

    Celeste era arrivata a desiderare di riportare Willow in ospedale, dove l'avrebbe nutrita con l'assistenza di uno staff ben preparato o addirittura lasciarla là a dor­mire: le sarebbe mancata, ma almeno era certa che sa­rebbe stata ben assistita.

    «Va tutto bene, Willow» le ripeteva accarezzandole una manina, «stai tranquilla, tesoro» e finalmente la piccola smise di agitarsi e i singhiozzi finirono. Ce­le­ste provò un moto di trionfo vedendo che era fi­nal­mente riuscita a calmarla da sola e aveva persino pa­u­ra a muoversi temendo di svegliarla. Finito di pop­pa­re il biberon, la bimba crollò e lei, dopo averle sfilato de­licatamente la tettarella rimase a osservare i piccoli fremiti delle sue lunghe ciglia. Dormiva così pro­fon­damente che ora nemmeno il baccano della festa sa­rebbe riuscito a svegliarla. E ho fatto tutto da sola! pensò con orgoglio. Guardò i lineamenti perfetti della sua creatura, le piccole delicate sopracciglia, il nasino all'insù e la bocca che sembrava un bocciolo di rosa e pensò che il cuore stesse per scoppiarle in petto tanto grande era l'amore che provava per quell'esserino in­di­feso. Un amore terrificante, di fronte al quale si sen­ti­va del tutto inadeguata.

    Non voleva muoversi, non voleva metterla nella carrozzina. Voleva solo stare al sicuro in quel letto con sua figlia in braccio a guardare la baia e sapendo che Ben era a tiro di voce. Per la prima volta si sentiva finalmente in pace. «Non addormentarti con la bimba in braccio» le sembrava di sentire quello che avrebbe detto sua madre, così Celeste posò delicatamente Willow nella carrozzina.

    Quando raggiunse Ben in soggiorno lui era co­mo­damente seduto su uno dei divani. Alzò gli occhi dal programma che stava guardando in televisione e le versò un bicchiere di vino. Fu il secondo momento di pace che provò quella sera.

    «Si è addormentata» mormorò.

    «Bene, e tu come stai?»

    «Meglio» rispose sedendo sul divano di fronte, «sembra che il tuo destino sia quello di tirarmi fuori dai guai. Spero che non debba capitare più.»

    «È vero... Scegli che film vuoi guardare.»

    Lei s'inginocchiò davanti allo scaffale per scegliere nella sua vasta collezione e gli raccontò la grande no­vità. «Non dovrai più salvarmi perché torno a casa dai miei.»

    Ben si arrestò con il bicchiere in mano. «Quando?» chiese mandando giù un sorso abbondante.

    «Il prossimo weekend.» Lo fissò con i suoi occhi ambrati e poi distolse lo sguardo. «Papà e mamma stanno dipingendo una cameretta libera per lei e tra­slocheremo la prossima settimana. Adesso i nostri rap­porti sono molto migliorati.»

    «E tu che ne pensi?» le chiese seriamente.

    Celeste fissava i DVD senza realmente vederli. «Per essere sincera non ci ho riflettuto molto. Non è quello che voglio in realtà» ammise come pensando ad alta voce. «Glielo avevo chiesto alcune settimane fa quando ero ancora incinta e stavo così male, ma non a­vevo nessuna intenzione di vivere lì col bam­bi­no. Mi rendo conto però che per Willow è la soluzione migliore. Certo, da sole ce la caveremmo co­mun­que,...» Celeste fece un profondo respiro. «Anche se sembra impossibile ha quasi due mesi e potrei met­ter­la al nido e tornare a lavorare.»

    «In questo modo invece l'accudirebbe tua madre?»

    Celeste annuì. «Sì, ma solo quando sarò al lavoro; ha già detto che non vuole fare la babysitter e così sia­mo d'accordo che ci alterneremo per un anno. Ho par­lato con Meg e mi ha promesso che mi aiuterà a pre­parare la richiesta di trasferimento.»

    «Torni al tuo vecchio ospedale?»

    «No, vorrei andare al Melbourne Central

    «È stato il primo ospedale in cui ho lavorato.»

    «Ho scelto quello perché è molto più vicino alla ca­sa dei miei. Oltretutto voglio avanzare di grado, qui­n­di dovrò fare il numero più alto possibile di guardie per mettere da parte un po' di soldi.»

    Certe volte sembrava così giovane, pensò Ben, e a volte sembrava stravagante e spensierata, eppure c'era in lei una vena di buon senso che lo affascinava, una determinazione che smentiva la sua apparente fra­gi­li­tà. Era chiaro che aveva ragionato a fondo sul pro­ble­ma.

    «Quindi con i tuoi va meglio?»

    «Molto meglio di prima.» Aveva scelto il film e lo inserì nel lettore. «Anche se a dire il vero non mi ci vedo molto a tornare a casa, una volta non vedevo l'ora di andarmene. Sono così rigidi.» Sedette sul divano accanto a lui e gli sorrise. «Figurati se mi vedessero a­desso!»

    «Cosa intendi dire?»

    «Seduta sul divano con un uomo a bere vino.»

    «Hai ventiquattro anni e stiamo semplicemente guardando un fil­m.»

    «Non mi interessa quanti anni hai signorina!» recitò lei agitando un dito in modo minaccioso, «finché vivi sotto questo tetto devi stare alle nostre regole!»

    «Stai scherzando, vero?» Ben era un po' divertito e un po' preoccupato.

    «Assolutamente no. E adesso con la piccola sarà ancora peggio» aggiunse.

    «Tranquilla, non possono sentirti» rise Ben.

    «Non mi interessa se mi sentono o no. Ho messo bene in chiaro con i miei genitori che non voglio sen­tir parlare del pasticcio in cui ti sei cacciata o di in­ci­denti quando c'è la bambina. Le racconterò tutto, ma quando e come deciderò io.»

    «Mi sembra più che giusto.»

    «Non è colpa sua se io non sapevo che suo padre era sposato...» si interruppe e ringraziò il cielo che fossero al buio perché era arrossita violentemente, non per l'imbarazzo, ma perché stava per scoppiare in la­crime. Restarono in silenzio per un po' e poi Ben le fe­ce la domanda che da tempo voleva farle.

    «Come, Celeste? Come facevi a non saperlo?»

    «Non lo sapevo, tutto qui.»

    «Ma passavate delle serate come questa?»

    «In che senso?»

    «Così, semplicemente insieme. Non ti sei mai chie­sta perché venisse sempre lui da te?»

    «Non veniva da me, ci davamo degli appuntamenti, uscivamo» rispose con voce un po' forzata.

    Ben non voleva insistere con altre domande, ma fu lei a continuare.

    «Io abitavo con altri due studenti e sapevo fin dal­l'i­nizio che quello che facevo era sbagliato.» Tacque di nuovo fissando la televisione senza guardarla.

    «Sbagliato?» chiese Ben, «pensavo che tu non sa­pessi che era sposato.»

    «Non è solo quello. Non posso dire a nessuno chi è il padre di Willow perché creerei troppi problemi.»

    «A me puoi dirlo» le propose Ben che capiva quan­to le pesasse quel segreto.

    «Non lo dirai a nessuno?»

    «Tranquilla, nessuno lo saprà mai.»

    «Perché sai, i pettegolezzi...»

    «Io non faccio mai pettegolezzi.»

    Lei lo fissò, guardò quei lineamenti rigidi che sa­pe­vano diventare così dolci. Vide l'onestà e l'integrità nei suoi occhi e questo la fece sentire ancora più col­pevole.

    «Era il mio docente all'università» confessò con ri­luttanza, «si chiama Dean.» Ben taceva e lei non ca­pi­va se aveva afferrato il problema. «È vietato che i pro­fessori abbiano relazioni con le studentesse» gli spie­gò.

    «Lo so.»

    «Tuttavia a volte succede, in fondo si tratta di adulti consenzienti e quindi è una regola abbastanza as­sur­da» continuò lei senza cercare di scusarsi. Chiuse gli occhi e le lacrime iniziarono a sgorgare. «Forse non è così assurda, però ognuno deve essere libero di fare i suoi errori. Lui diceva che viveva con un collega e co­sì non potevamo andare a casa sua, io abitavo con altri due studenti e così ci incontravamo sempre fuori città. Naturalmente io pensavo che non volesse che nessuno dell'ambiente dell'università ci vedesse. Mi ripeteva che una volta che io avessi preso il diploma avremmo potuto rendere pubblica la nostra relazione.»

    «E non hai mai sospettato nulla?» Non riusciva a capacitarsi che una ragazza come Celeste fosse stata così ingenua.

    «Io non avevo mai avuto una relazione seria, solo qualche boyfriend» gli confessò lei, «ma erano cose poco importanti anche perché, come ti ho detto, i miei genitori sono sempre stati molto severi e quando sono andata fuori casa è stato solo per studiare e non per a­vere avventure o cose del genere. All'inizio non avevo nemmeno capito bene se la nostra era una vera re­la­zione perché mi portava solo fuori a bere qualcosa, o a cena. Solo dopo abbiamo incominciato a frequentare gli alberghi» continuò con uno sforzo che la fece ar­rossire, «in realtà avrei anche dovuto capirlo da tante altre piccole cose. Per esempio non rispondeva mai al telefono e usava sempre la segreteria telefonica.»

    «E questo perché, secondo te?» chiese Ben che non era del tutto convinto.

    «Tu sei troppo corretto» gli disse Celeste con un sorriso che spuntava tra le lacrime, «e anch'io lo sono, per questo non ho mai nemmeno immaginato che po­tesse mentirmi. Ora capisco che non rispondeva al te­lefono perché poteva trattarsi di una delle sue altre donne o di sua moglie.»

    «Come hai scoperto che era sposato?»

    «È successo per caso: un giorno è stato sostituito da un altro collega che ci ha spiegato che Dean era do­vu­to tornare a casa perché sua moglie stava male.»

    «Oh, povera Celeste!»

    Le pubblicità del film erano finite e lei i­mi­tò Ben appoggiando i piedi sul tavolino e bevendo un altro sorso di vino. Restò lì a ripensare all'umiliazione di quel giorno e alla sua paura quando, alcune set­ti­mane dopo, si era accorta di aspettare un bambino da De­an.

    A­ve­va scelto un film comico, ma non si stava di­vertendo affatto.

    Ben seduto accanto a lei era una presenza che le da­va sicurezza.

    Vicino alla televisione c'era una foto di Jen. Lei non riusciva a vedere il suo viso ma solo i contorni della cornice e anche quello le faceva venire le lacrime agli occhi. Le sembrava che qualcuno avesse giocato con le loro vite e che i posti giusti fossero già stati oc­cu­pa­ti. Le serviva assolutamente un fazzoletto, ma con­ti­nuava a tirare su col naso, perché per raggiungere i Kleenex sul tavolino avrebbe dovuto sporgersi su di lui e così lasciò perdere.

    «Tieni» disse Ben passandoglieli e lei scoppiò a ri­dere.

    «Piangi spesso quando ti siedi qui a guardare la te­le?»

    «No, ma prima è passata di qui la sorella di Jen.»

    Oddio! Non ci aveva proprio pensato e si vergognò come una ladra per la sua insensibilità. Lei si cro­gio­la­va nei suoi problemi, e lui sembrava così equilibrato che era facile dimenticare tutto quello che aveva sof­ferto.

    «È venuta solo a salutarmi, ma non ha fatto in tem­po a visitare la casa.»

    «Deve essere stato difficile per te.»

    «Sì, ma per fortuna sono stato chiamato dal­l'o­spe­dale per un'emergenza.»

    «Grazie» disse rendendogli la scatola dei Kleenex, «intendo dire grazie per tutto, davvero.»

    «Sono felice di esserti stato utile.»

    «Invece io sono dispiaciuta.»

    «Perché?» chiese Ben temendo la risposta che a­vrebbe potuto dargli.

    «Perché le cose tra noi sono diventate ancora più difficili.»

    «Non sono difficili» mentì lui.

    «Sì invece, perché io voglio essere tua amica ma non so come esserlo senza complicazioni di altro ge­nere.» Di nuovo le lacrime le rotolavano sulle guance. «E ti prego di non sentirti in colpa per quello che sto per dirti, ma uno dei motivi per cui ho deciso di tor­na­re a casa dai miei è che magari così saremmo potuti tornare amici come prima.»

    «Non credo proprio che questo serva.» Avrebbe vo­luto toccarle i capelli, stringerla a sé e baciarla ma sa­peva che sarebbe stato troppo crudele per tutti e due. Ma poi lei lo guardò dritto negli occhi e disse quelle parole che lui qualche volta aveva sperato di sentire.

    «Avrei tanto voluto che Willow fosse tua.»

    Era tutto vero: avrebbe voluto che fosse stato Ben l'uomo con cui aveva fatto l'amore per la prima volta.

    «Non avrebbe mai potuto essere mia perché in tal caso io mi sarei preso molta più cura di te.» Non po­te­va sopportare il fatto che si trasferisse, e che non a­vrebbe più potuto vederla nemmeno al lavoro. «Vieni qui» mormorò facendole posto accanto a sé. Lei si sentì al sicuro, come quando era sulla sua barca, lon­ta­no da tutti. Era bello farsi coccolare da lui mentre con­tinuava a piangere: e ancora più bello fu quando le passò un braccio intorno alle spalle e la tenne ben stretta. Era bello, ma lo era anche per Ben. La set­ti­ma­na successiva Celeste si sarebbe trasferita in un posto dove in realtà non avrebbe voluto andare, lasciandolo da solo. Però quella sera erano lì, insieme. Era pia­ce­vole starsene vicini sul divano, sentire la sua tensione affievolirsi e incominciare a ridere insieme per le bat­tute del film. Era stata una giornata infernale: far ve­dere la casa ad Abby e a suo marito con Abby che era rimasta in salotto e scoppiava continuamente in la­cri­me. Era arrivato a proporre di portarli fuori in barca.

    Era terribile che Abby assomigliasse così tanto a Jen e quando era arrivata la chiamata dall'ospedale l'a­veva accolta come una liberazione.

    Era stato uno di quei giorni particolarmente tristi e la notte non prometteva niente di meglio.

    E invece ora Celeste era lì e lui era felice. Anzi, meglio, si trovava in quella situazione d'incertezza in cui doveva decidere se riprovare a vivere o no.

    Avevano inserito un nuovo film e stavano vedendo un bacio appassionato che sembrò durare molto di più di quanto ricordasse Celeste dall'ultima volta che lo a­veva visto.

    La mano di Ben circondava le sue spalle, lei era troppo vicina al bordo del divano e aveva bisogno di un po' di spazio per non essere troppo appiccicata, ma lui la strinse più forte.

    Celeste faceva fatica a respirare così stretta tra le sue braccia, mentre Ben con la mano libera le ac­ca­rez­zava impercettibilmente il ventre continuando a guar­dare quel bacio infinito sullo schermo.

    «Quando tornerai a casa» cominciò Ben con voce esitante e un po' rauca, «prenderemo le cose con cal­ma.»

    Lei stentava a respirare, temeva di illudersi e non si muoveva perché temeva che lui smettesse di parlare.

    «Potremmo per esempio uscire insieme?»

    «Guarda che non avrò una babysitter, mia madre è stata molto chiara. Baderà a Willow solo mentre sarò al lavoro.»

    «Potresti venire qui a cena, tanto per incominciare e iniziare a conoscerci meglio.»

    «E Willow?» chiese col cuore in gola.

    «Forse se facciamo tutto con calma può darsi che...» s'interruppe. Stava proponendo una cosa che a­veva giurato che non sarebbe mai accaduta. «Magari col tempo...»

    Le stava offrendo la speranza, anzi le stava dicendo che magari l'impossibile si sarebbe potuto realizzare.

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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