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Vicini di casa, vicini di cuore

di CAROL MARINELLI

Celeste: Il mio nuovo vicino di casa è davvero affascinante e oltretutto lavoriamo nello stesso posto. Ma adesso ho altro a cui pensare, devo assolutamente concentrarmi sulla mia vita. Forse Ben può rivelarsi un piacevole diversivo.
Ben: Un altro anno, un nuovo inizio, quello che mi ci vuole per dimenticare. Allora perché mi sento così nervoso? Forse sono solo agitato per il mio primo giorno di lavoro. E poi, ci mancava pure la strana attrazione che provo per Celeste. Possibile che uno come me abbia voglia di una relazione stabile?

7

«Quando la posso vedere?» Era il suo chiodo fisso, l'unica cosa a cui pensava.

    L'ambulanza era arrivata quasi subito e lei era stata trasferita direttamente in Maternità, dove le o­stetriche erano state fantastiche e l'avevano tenuta costantemente aggiornata sulle condizioni della sua bimba. Le a­ve­vano messo una flebo, le avevano fat­to un prelievo e l'avevano visitata.

    «Perché mi fate tutte queste analisi?»

    «Hai la pressione ancora troppo alta e anche ri­tenzione idrica. Vogliamo essere sicure che tu ti sta­bilizzi bene.»

    La aiutarono a lavarsi e a rinfrescarsi, la misero a letto e finalmente Gloria, che era la responsabile del reparto, arrivò con delle notizie concrete. «L'hanno già trasferita dal Pronto Soccorso al reparto di Te­ra­pia Intensiva Neonatale. Non appena sarà sta­bi­liz­za­ta e il tuo medico ti darà il permesso, ti ac­com­pa­gneremo da lei. Tieni, l'ha scattata un'infermiera» aggiunse por­gendole una fotografia.

    Era minuscola, con un berrettino di lana rosa in testa... era piena di tubicini, ma era la sua bambina. I pochi minuti trascorsi con sua figlia avevano la­sciato in lei un ricordo tenero e indescrivibile.

    «Ora» continuò Gloria con tono pratico, «sta be­ne e la stanno curando per una lieve insufficienza respiratoria con dei surfactanti e altri farmaci che contrastano l'immaturità dei polmoni.»

    Celeste capiva benissimo quale potesse essere la situazione.

    Poi giunse la domanda che temeva. «Dobbiamo avvisare qualcuno?»

    Lei scosse la testa. «Chiamerò io i miei genitori più tardi.»

    «Ma non puoi stare sola, non hai un'amica?»

    Celeste scosse di nuovo la testa. In realtà de­si­de­rava un po' di privacy, non aveva voglia di vedere dei genitori che non le erano mai stati vicini e l'u­ni­ca cosa che avevano fatto dopo averla cacciata di casa era stata in­viarle un assegno, né degli amici che l'avevano i­gno­rata né tantomeno il padre della piccola. Doveva con­vincersi che non aveva nessuno e che avrebbe dovuto cavarsela da sola.

    «Ciao!» Si aprì la porta e Ben entrò portando con sé una ventata di allegria; ecco, lui era pro­ba­bil­mente l'unica persona al mondo che aveva voglia di vedere.

    «Grazie di cuore, Ben.»

    «Figurati, è stato un piacere.»

    «Come sta?»

    «Non lo so, l'hanno portata via dal Pronto Soc­corso mezz'ora fa.»

    Era ovvio che non fosse al corrente, non poteva certo seguire i pazienti in reparto.

    «E tu come ti senti?»

    «Non troppo male...» non voleva tediarlo con i suoi problemi di salute.

    «Bene, adesso devo andare. Mi stanno chiamando per la casa ogni cinque minuti, devo recarmi a fir­mare il contratto.»

    «Allora è meglio che tu vada.»

    «Ti serve qualcosa? Se vuoi passo da casa tua e ti prendo la borsa, l'avevi preparata, vero?»

    «Non ancora» ammise Celeste con un debole sor­riso, «come sai non sono così organizzata. Però puoi controllare la corrente e l'acqua per favore? Dovrebbe essere tutto a posto, ma ero uscita solo per fare una passeggiata.»

    «Certo.» Le passò la borsetta e lei gli diede le chiavi. «Altro?»

    «Non mi viene in mente nient'altro.»

    «Questa notte sono di turno, così passo più tardi a riportartele.»

    Anche se aveva le chiavi di casa sua e vi sarebbe entrato, il suo tono era assolutamente distaccato, co­me se fosse un medico qualunque e lei una paziente qualsiasi. «A proposito... congratulazioni, Celeste.»

    «Grazie.»

 

    Era stata una serata molto stressante. Sulla porta della stanza di Celeste non era appeso nessun fiocco rosa e in camera non c'era nemmeno un mazzo di fiori. Aveva avvisato i suoi genitori e, come pre­vi­sto, e­ra­no arrivati un paio d'ore dopo portando con sé le loro solite recriminazioni e quasi sgridandola per lo stress che aveva causato loro.

    «Dove stavi andando?» la rimproverò Rita, sua madre, «saresti dovuta restare a letto.»

    «Il dottore aveva detto che potevo fare due passi tutti i giorni.»

    La madre, stizzita, cambiò argomento. «Gli hai telefonato, almeno? Chiunque egli sia? Gli hai detto che è diventato padre? Che avrà un bambino?»

    «No.»

    «Non credi che dovresti metterlo di fronte alle sue responsabilità?»

    Non era cambiato nulla: le obiezioni e le re­cri­mi­nazioni che avevano iniziato a farle quando aveva detto loro che era incinta continuavano anche ora, accanto al suo letto d'ospedale. Celeste si era illusa che l'arrivo di un nipotino avrebbe cambiato tutto e invece non era così.

    «Quando possiamo vederla?» chiese Rita a Gloria che era provvidenzialmente entrata ponendo fine a quella penosa conversazione.

    «Per il momento solo la madre è autorizzata a farlo» rispose Gloria con aria professionale, «anzi, Celeste, è ora di andare.» Fu un vero sollievo essere spinta fuori da quella stanza, lontano da loro. «In realtà se vuoi uno di loro potrebbe entrare con te» mormorò Gloria in tono complice.

    «Per carità! E poi la mia bambina me la voglio vedere da sola per la prima volta.»

    Mentre aspettavano in un salottino, Gloria le ac­carezzò una guancia. «Non sai come mi spiace, im­magino che non era così che avevi previsto che an­dasse a finire.»

    «Certo che no» ammise Celeste con voce un po' tremula.

    «Se hai voglia di piangere sfogati un po' qui con me, siamo completamente sole e non ci vedrà nes­suno» le mormorò Gloria mettendole un braccio in­torno alle spalle. «Capisco che per te deve essere stata una giornata pazzesca.»

    Celeste sospirò: se avesse iniziato a piangere te­meva che non avrebbe più smesso. Poi finalmente giunse il momento. La portarono a disinfettarsi le mani e poi in carrozzella raggiunse l'incubatrice e poté finalmente vedere sua figlia. Sembrava un ra­nocchietto, con un buffo berrettino rosa in testa e piena di tubicini che le entravano e uscivano da tut­te le parti. Nascose il suo sgomento e ascoltò at­ten­tamente le spiegazioni della capo infermiera che le stava dicendo che, nonostante le apparenze, la bim­ba era perfettamente a suo agio.

    «Posso prenderla in braccio?»

    «Non oggi, per ora desideriamo che resti tran­qui­lla, ma probabilmente domani si potrà fare.»

    Celeste le sfiorò le manine e osservò quelle un­ghie minuscole di un tenero color rosa e attese l'im­peto di amore che avrebbe dovuto provare per lei, ma c'era soprattutto tenerezza accompagnata da un forte senso di colpa.

    «Hai già pensato al nome?» le chiese Gloria.

    «Non ancora, prima volevo vederla.» Guardò a lungo la sua bimba, ma era troppo stravolta dagli avvenimenti della giornata per una decisione così importante.

    «Hai un mucchio di tempo per decidere» in­ter­venne Gloria, «ora ti riporto in camera e ricordati che non stai bene nemmeno tu.»

    Arrivò il ginecologo e le spiegò che gli esami del sangue non erano perfetti, tuttavia le assicurò che nei giorni successivi, avendo ormai partorito, si sa­rebbero stabilizzati. «Celeste, non dimentichiamo che hai a­vu­to una gestosi.»

    «Ma non dovrebbe passare dopo la nascita del bambino?»

    «Sì, ma non immediatamente e infatti tu non stai ancora bene. Ti tenevamo in osservazione dal­l'ul­ti­ma visita prenatale, quando ci siamo accorti che ti era sa­lita la pressione. In fondo è meglio che tu ab­bia par­to­rito. Se la gravidanza fosse andata avanti sarebbe stato pericoloso per te e per il bambino.»

    Fu una serata lunga e solitaria. Alcuni amici e­ra­no venuti a salutarla, ma le sembrava che parlassero un'altra lingua. Quando alle otto se ne andarono tut­ti, pron­ti per il divertimento del sabato sera, Ce­le­ste, fi­nal­mente sola, chiuse gli occhi e si sforzò di non pian­ge­re. Non fece caso ai passi della persona che era entrata nella stanza, probabilmente do­ve­va­no misurarle la pressione, ma poi sentì il tintinnio delle sue chiavi che venivano appoggiate sul co­mo­dino.

    Ben vide una lacrima scivolarle lungo il viso e capì che giornata terrificante doveva essere stata quella per lei. Sapeva che avrebbe potuto posare il sacchetto con le chiavi e il resto e andarsene in si­lenzio. Dopo tutto aveva deciso di non farsi co­in­volgere e una mamma single era l'ultima cosa al mondo di cui aveva bisogno. Lei era così giovane e fragile e lui così a­ma­reggiato e col cuore così in­du­rito che solo qualche rara volta Celeste era riuscita a penetrarvi.

    «So che sei sveglia!» disse lui con una certa ri­lut­tanza.

    «Non è vero.»

    «Ti ho portato lo spazzolino da denti e una spaz­zola.»

    «Grazie.»

    «Ti serve qualcos'altro, una camicia da not­te?»

    «No grazie, mia madre andrà domani a com­prar­mi qualcosa.»

    «Come si sono comportati?» chiese Ben anche se sapeva bene che non erano affari suoi.

    «Erano arrabbiati, come sempre del resto.» Iniziò a piangere e Ben le allungò un fazzoletto, «sono an­cora arrabbiati con me.»

    «Forse più che arrabbiati sono preoccupati.»

    «Sono arrabbiati» ripeté Celeste, «e anche tu lo sei.»

    «Perché mai dovrei avercela con te?» Quando lei lo guardò capì di essere davvero un po' arrabbiato o forse era solo preoccupato? Onestamente non lo sa­peva.

    «Perché ci siamo baciati e ora tu mi consideri una ragazza leggera che fa la sciocca col primo uomo che incontra.»

    «Assolutamente no» la interruppe Ben, «non so­no seccato con te per quello che è successo, ca­so­mai con me stesso.»

    «E perché?»

    «Perché...» fece un profondo sospiro e una volta di più ammirò la schiettezza di lei. Sedette sul letto, e ora non era più il medico che parlava. «Perché a­desso non è di questo che tu hai bisogno.»

    «Come fai a sapere di cosa ho bisogno?»

    «In ogni caso non hai bisogno di me. Da quando è morta Jen, ho avuto qualche breve flirt, ma nes­su­no ha funzionato e tu sei già abbastanza inguaiata per met­terti con uno come me, che non vuole avere figli.»

    «Pensi che io sia a caccia di un padre per la mia bambina?» Celeste era sbalordita. «Via, Ben, in fondo è stato solo un bacio!»

    «Ma non sarebbe dovuto capitare.»

    «Lo so» ammise lei, Ben aveva perfettamente ra­gione. «Però su una cosa ti sbagli, io non sto cer­cando una relazione, ho già abbastanza problemi a fare la mamma single dato che suo padre...» scoppiò a pian­gere perché non riusciva a capacitarsi di come avesse potuto essere così ingenua da dare tutta se stessa a un uomo che cercava solo un'avventura.

    «Lo hai avvisato?» le chiese Ben sottovoce ma senza l'ombra di un'accusa.

    «Gli ho telefonato poco prima che arrivassi tu.»

    «E?»

    «Ha detto che non ne vuole sapere.»

    «Mi dispiace moltissimo.»

    «A me no, mi spiace per la piccola ma non per me, almeno adesso non ho più dubbi e so che me la dovrò cavare da sola. Pensi che ce la farò?»

    «Ne sono certo.»

    «In ogni caso non sto cercando né un partner né tantomeno un surrogato di padre. È stato solo uno stupido bacio e mi spiace perché io cercavo in te un vero amico e così ho rovinato tutto.»

    «Eri stata tu a dirmi che non volevi che ti piom­bassi in casa » sottolineò lui.

    «Tu però ne sei stato ben felice» osservò lei.

    Era così franca che Ben non poté trattenere un sorriso. «Hai ragione, avremmo dovuto parlarne in­sieme, da buoni amici.»

    «È quello che stiamo facendo adesso.»

    «Onestamente?»

    «Sì» e le strinse la mano ancora gonfia. «Le hai già dato il nome?» chiese cambiando discorso.

    «No» si scusò lei.

    «Quali sono quelli che preferisci?»

    «Circa un migliaio...»

    «Sarà meglio che vada a lavorare» dichiarò lui al­zandosi in piedi. Non era una scusa; era già in ri­tar­do di cinque minuti. «Torno più tardi, ma se hai bi­sogno chiamami.»

    «Certo, tranquillo.» Lo salutò con un sorriso af­fettuoso, felice di aver chiarito la natura del loro rapporto e per la sua onestà di quella sera. Del resto era stata o­nesta anche lei: infatti non stava cercando né un par­tner né un padre per sua figlia, ma solo un vero amico.

    A mezzanotte vennero a prenderla per farle ve­de­re di nuovo la bambina e poté stringerla tra le brac­cia. Strinse al cuore quel cosino minuscolo e fi­nal­mente un impeto di amore la invase. La guardò at­tentamente: aveva solo poche ore di vita ed era così fragile e vul­nerabile, così dipendente da lei. No, de­cise una volta di più, non aveva bisogno di nessun altro per essere una buona mamma. Se ne sarebbe occupata lei.

    «È ora di andare adesso.» L'ostetrica interruppe il flusso dei suoi pensieri, prese la bimba e la posò nella incubatrice, poi la riportò a letto dove Celeste finalmente si concesse un pianto li­beratorio. «Fatti un bel pianto, ti farà bene» le disse la donna con to­no materno. Del resto ne aveva tutti i mo­tivi: pra­ti­camente non aveva famiglia, la sua bimba era in Te­rapia Intensiva piena di tubicini, il suo vero padre se ne era lavato le mani... e tuttavia in fondo al suo cuore era convinta che in quel quadro ci fosse po­sto anche per la speranza.

    «Come sta?» Ben si era lavato le mani e aveva indossato un camice sterile sugli abiti, anche se si sarebbe limitato a guardare attraverso un vetro.

    «Bene» rispose l'infermiera di turno, «a proposito io sono Bron.»

    «Piacere, Ben.»

    «È lei il dottore che l'ha fatta nascere?»

    «Sì» rispose lui chinandosi sulla culla, «e sono anche un amico della sua mamma.»

    «Comunque questa piccolina ha trascorso bene la sua prima notte, vero Willow?»

    «Willow, come il nome della pianta sotto cui è nata?» Ben sorrise perché non poteva esserci nome più appropriato per lei. La bambina aveva un a­spet­to mol­to migliore di qualche ora prima e il fatto che fosse ancora collegata agli apparecchi non lo pre­oc­cupava affatto. Ora aveva un bel colorito rosato e spingeva con le gambine contro la sponda del­l'in­cu­batrice come se volesse scappare.

    «Dovrei cambiarle la culla, le spiace tenerla un momento, dottore?»

    Sarebbe stato logico che, come medico, si pre­stasse a dare una mano invece di stare lì impalato a guardare, invece, pur sentendosi un verme, declinò l'offerta. «No, grazie...» Sapeva di aver fatto la fi­gura del­l'ar­ro­gante, ma era un prezzo che era di­spo­sto a pagare e re­stò a guardare l'infermiera che cam­biava le lenzuola con un'abilità sorprendente. Willow era davvero pic­colissima, con braccia e gambe minuscole e in testa un buffo cappellino rosa che ri­copriva i suoi capelli scuri.

    Era carina come tutti gli altri neonati che aveva visto nelle culle del reparto; avrebbero potuto pren­derne uno a caso e dirgli che era Willow e lui ci a­vrebbe cre­duto.

    In quell'istante la bimba aprì gli occhi e anche se andava contro ogni ragionevole logica, gli sembrò che stesse fissando proprio lui, proprio come aveva fatto durante il tragitto in ambulanza. Ricambiò lo sguardo, ma quello che lo distolse per primo fu di nuovo lui.

    «Grazie» mormorò all'infermiera, «grazie per a­vermela lasciata vedere per qualche minuto. Sono contento che stia me­glio.»

Ogni mercoledì un nuovo capitolo!
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